Sab. Lug 27th, 2024

 

L’interessante reperto di archeologia-industriale, contestualizzato nell’area della Ferdinandea di Stilo, è stato scoperto nel 1985 nei boschi di Stilo, a seguito di ricerche, effettuate da Salvatore Riggio, Giorgio Metastasio e dallo scrivente.

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Il mondo scientifico prende conoscenza di tale ritrovamento grazie a due articoli apparsi, nei: “Quaderni ACAI” , 1992 e “Bollettino Ass. per l’A.I. Industriale di Napoli”, nel 1993, a firma dello scrivente e di Salvatore Riggio.

Il villaggio oramai è quasi completamente andato perso, in quanto in muratura aveva solo il forno fusore, i forni di arrostimento, la chiesa e il Regio Palazzo.

Le case degli operai e delle loro famiglie, essendo delle semplici baracche di legno, non hanno retto all’usura del tempo e delle intemperie.

Documenti ci fanno conoscere la consistenza del nucleo abitativo e l’inizio della costruzione e/o della ristrutturazione dell’insediamento.

Nel 1602 la produzione delle sole ferriere di Stilo era di circa 1.213 cantara (un cantaro, circa 90 kg.). E’a questa data che si deve far risalire quel che oggi rimane del villaggio siderurgico (abitazioni, altoforno e chiesa) insistenti in località “Chiesa Vecchia “. In tale data il Commissario delle ferriere operanti nel “Bosco di Stilo” chiese dei finanziamenti per ricostruire in muratura le baracche e i magazzini.

Il villaggio operò per svariati decenni, con alti e bassi, legati alle vicende politiche del Regno e al nascere nel comprensorio di altre realtà siderurgiche.

Nel 1768, mentre si dava avvio alla costruzione del complesso siderurgico di Mongiana, al fine di migliorare le pessime condizioni di vita degli operai  dimoranti nel villaggio di “Chiesa vecchia” posto in alta montagna, che oramai ospitava una vera e propria  comunità operaia , di circa 300-400 persone, l’amministratore Conty, che rivestiva la carica di ” Amministratore Generale delle Regie Ferriere e Fonderie, e Regio Capitano a guerra del Casale di Pazzano”, richiese, alla Regia Corte, in sostituzione del precedente, un nuovo parroco che, però avrebbe dovuto essere anche medico, per poter alleviare così le sofferenze non solo dell’anima, ma anche e soprattutto del corpo sia dei fonditori ma in particolare dei familiari di questi che, per le condizioni atmosferiche avverse, in particolare d’inverno, avevano bisogno di una seria e qualificata assistenza medica.

”….che sia necessarissimo di stabilire nella Cappella delle ferriere  un sacerdote per Cappellano, che sia medico perché un’aspra montagna , e molto lontana dai luoghi abitati, han sempre sofferto coloro che vi sono impiegati disagi grandissimi per mancanza di medico. Infatti per l’addietro, in tempo d’inverno ritrovandosi circondati que’ luoghi di neve per più giorni e settimane, era stata preclusa la strada a chicchessia di colà approssimarsi, onde, mancato il medico, diversi son periti miseramente senza soccorsi, e mancato il Cappellano son morti i bambini senza battesimo, e gli adulti senza l’assistenza e gli aiuti spirituali....”( Manno-Matacena ).

Lo stesso Conty, aveva individuato del sacerdote e medico Paolo Bosco di Bivongi, che a quel tempo era cappellano medico dell’ospedale di Piedigrotta a Napoli, la persona adatta allo scopo.

Il Bosco, interessato al nuovo incarico, poneva però, come unica condizione che la chiesa del villaggio siderurgico, fosse dichiarata Regia, e di conseguenza posta sotto la sua stretta competenza. Ciò, fece insorgere l’allora parroco di Pazzano, Ilario Fiorenza, a cui sino ad allora erano affidate le cure religiose del villaggio e che si vedeva di fatto  esautorato e privato di alcuni suoi privilegi.

Dopo una lunga controversia il Re, pressato anche dal Conty, accettò le richieste del Bosco. 

 

Oggi del villaggio, rimangono le sole strutture in pietra e tra queste, campeggia e caratterizza l’area, il forno fusore, ad oggi, unica testimonianza del ciclo di fusione degli opifici attivi in passato nei boschi di Stilo.

La data di costruzione del forno, è da collocarsi sul finire del 1700, inizi dell’800, ossia alla seconda fase di re-industrializzazione dell’area di Ferdinandea, voluta dal governo francese, quando si decise di incentivare le produzioni nel vecchio sito industriale. A tale scopo le antiche ferriere furono tutte restaurate, furono costruiti forni di prima e seconda fusione e fucine di raffinazione.

Il forno fusore, anche se allo stato di rudere, rappresenta un unicum nel settore in tutta Italia, sia per la sua permanenza in situ dopo secoli di abbandono, sia per la tipologia a cui appartiene.

Dovrebbe essere un forno a “Manica” e/o “Cannecchio”. Il forno di Chiesa Vecchia ha la forma di un tronco di piramide quadrangolare, rovesciato, molto allungato, dalle considerevoli dimensioni, ed è da “collocarsi” in una ben precisa fase dell’evoluzione tecnologica dei forni fusori in atto anche in Calabria. Potrebbe rappresentare una fase  intermedia, che avrebbe portato, nel giro di un secolo, i forni a “manica” cinquecenteschi, ai “cannecchi” secenteschi.

I forni a “manica”, presentavano all’esterno la forma tipica di un parallelepipedo, realizzato in mattoni e/o con blocchi di granito squadrati. Quelli cinquecenteschi di prima “generazione”, erano alti intorno ai 2 metri.

In seguito, grazie alla introduzione di più efficienti sistemi di arricchimento di aria per la combustione nei forni (trombe idro-eoliche e mantici più grandi, azionati dall’acqua), si inizia a dare maggiore altezza all’intera struttura del forno, che giunge a toccare, nei decenni successivi, i 6-8 metri. Questi forni fusori, fin dal momento della loro apparizione sulla scena, in ambito siderurgico bresciano, dai quali provengono, fine XVI-XVII, iniziano ad essere denominati “cannecchi”, termine che soppianterà, ben presto, in tutto il territorio peninsulare italiano la denominazione “manica”.

I nuovi “cannecchi”, presentavano una struttura più complessa e diversa dei precedenti. Alcuni, avevano la “sacca” e il crogiuolo a forma di tronco di piramide capovolta, altri invece presentavano un doppio tronco di piramide collegato per la base maggiore. In entrambi i casi le altezze si attestavano intorno ai sette-otto m.

In seguito, le migliorate tecniche di fusione, (per eliminazione della fase di arrostimento preventivo del minerale) e la richiesta maggiore di ferro, “costrinse” i tecnici metallurgici ad aumentare ancora di più l’altezza dei forni fusori (10-11 m.), che li “trasformerà” negli altoforni di metà ottocento.

Il Della Fratta di Montalbano nel 1678, ci fa sapere come fosse un forno a “manica”: “Questo è più alto del normale (circa 7 metri), con una cavità quadrata che si fa restringendo alla base e il portavento è posto nella parte anteriore sopra l’apertura di carico” e sottolinea come : “la manica o cannecchio (per dirlo alla bresciana) si fa d’ordinario alto di 12 braccia (oltre 7 metri) compartendolo così che la parte superiore sia larga  un braccio e mezzo per quadrato per principio e discendendo si restringa a poco a poco, fino in fondo del terreno dove resta quadripartita ugualmente alla misura di mezzo braccio circa”.

Il forno fusore presente a Chiesa Vecchia, è molto simile alla descrizione fattaci dal Della Fratta. Esso presenta la struttura esterna realizzata con blocchi di granito di media pezzatura, che all’origine avrebbe dato al forno la tipica forma di un parallelepipedo alto circa 7 m. e largo 2.40 m. circa. Il crollo della parete anteriore ci mostra il suo interno realizzato con conci lapidei di varia misura ben sagomati, che disegnano una struttura a  V, che va restringendosi in basso (circa 70 cm.).

Partendo dal ventre, largo 180 cm., si nota, verso l’alto, una convergenza delle due pareti come a volersi restringere verso il vertice, quasi a voler dare inizio al secondo tronco di piramide, che gli avrebbe conferito la tipica forma degli altoforni a “cannecchio”, realizzati con la sovrapposizione di due tronchi di piramide uniti per la base maggiore. 

 

Nel nostro forno, la struttura di fusione (il ventre e il crogiuolo), è sostenuta da pietre d’intaglio squadrate e posizionate a mo’ di parallelepipedo, che venivano tenute strette da catene e tiranti di ferro.

In basso sulla sinistra si notano i resti del “trombone del vento in pietra “intagliata” (un tubo in granito a più sezioni cavo al suo interno) che conduceva l’aria pressata all’interno del crogiuolo del forno per ossigenare la combustione.

Il piazzale dell’opificio era circondato da mura e al suo interno vi erano gli ambienti di lavoro (fucine, magli, depositi, carbonili, ecc…), sono ben visibili i pilastri che sorreggevano le coperture.

A Chiesa Vecchia di Stilo, si potrebbe essere, date le sue dimensioni e la sua forma, davanti ad un “semplice ” forno a “Manica”. Un forno a “manica” molto alto a semplice forma a V, con un leggero tentativo di restringimento in alto a protezione della combustione, una specie di paravento.

Questo, potrebbe rappresentare una evoluzione, un punto di passaggio tra i forni a manica, di ultimo sviluppo (molto alti), e i “cannecchi” alla bresciana, di prima generazione. Se così fosse, ci troveremmo davanti ad un reperto di archeologia industriale, unico nel suo genere, di cui sin ora si era a conoscenza solo attraverso delle descrizioni e ad una rappresentazione grafica. 

 

Poco distante dal luogo di fusione, al di là del ruscello che separa l’area di lavoro da quella abitativa,

si notano vari ambienti in muratura. Sono questi i resti del palazzo amministrativo, dei depositi e della chiesa del villaggio. Queste strutture, insistono sul terreno con una estensione di circa 410 m2, di cui 110 circa della sola chiesa. Il resto del villaggio con le case degli operai, costituito da semplici baracche in legno sarà stato distrutto nel tempo dagli agenti atmosferici.

Il luogo di culto era intitolato a San Giovanni Battista, ha un impianto mono navato ( 16X6,80 m. circa)  e   presenta  caratteristiche costruttive di una certa importanza, con l’utilizzo del granito per angolari, fregi e fonte battesimale.

Nel suo interno, si nota chiara l’impostazione dell’arco di trionfo, che delimita la navata da presbiterio. Nella navata è presente la botola che dava acceso alla cripta.

In fondo, a riprodurre le absidi sono presenti due nicchie, poste a fianco dell’altare, di cui si nota la base. Sparsi qua e là si scorgono tracce del pavimento realizzato in mattoni in cotto.

La soglia d’ingresso è realizzata in granito e sulla destra, appena entrati, si notano, le tracce di un caminetto, utilizzato per riscaldare l’ambiente. Camino che si scorge anche nell’annessa casa del parroco, che si trova attigua alla chiesa.

A fianco della chiesa, vi sono anche i ruderi del Palazzo amministrativo del complesso siderurgico di Stilo. Esso è allo stato di “resti” murari, alti appena 60-100 cm., che disegnano sul terreno numerosi ambienti, circa 6 sul piano terra per una estensione di quasi 300 m2. La costruzione in muratura, è di notevole spessore e ci fa presupporre che in origine ci potesse anche essere un altro piano. Il “modus costruendi”, dimostra anche la volontà degli edificatori di realizzare un edificio confortevole, che potesse fornire un adeguato ricovero a quanti lo abitassero tenuto conto delle disagevoli condizioni climatiche invernali. 

 

La tipologia costruttiva è tipica del periodo, con il tentativo di adattare le progettazioni di derivazione civile a quelle industriali e amministrative.  Il materiale di costruzione, prelevato in loco, è costituto  da pietre di fiume di varia pezzatura e come legante la calce.

Nei muri, si notano distintamente frammisti alle pietre del fiume, scorie di fusione, presenti in grande quantità e di pezzatura varia. Ciò, sta ad indicare che all’epoca della costruzione dell’immobile, nello stesso sito era già in atto, una attività siderurgica che aveva lasciato sul posto molti scarti e scorie di fusione, riutilizzate per la nuova edificazione.

Potrebbe essere lo scarto di lavorazione della ferriera cinquecentesca denominata “Acciarera”, sostituita poi dalla “Ferrera Nova” ed in seguito dal forno fusore presente nell’area. 

 

Il restauro e lo scavo archeologico del villaggio, sono stati realizzati con finanziamenti della Regione

Calabria.

I lavori appaltati dal Comune di Stilo, sono stati progettati dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Gli scavi, diretti dalla consorella Archeologica.

Questi ultimi sono stati eseguiti con perizia, ma a distanza di due anni, il sito è ricoperto parzialmente di alberi caduti, di foglie e di rovi.

Nella progettazione non è stata prevista nessuna opera di protezione, nei riguardi delle emergenze

messe in evidenza (chiesa e palazzo amministrativo). Come nessuna protezione è stata prevista per

l’altoforno (un unicum nel suo genere), che, restaurato e puntellato con tubi innocenti (che lo

offendono), avrebbe meritato uno sforzo progettuale più accurato per salvaguardarlo dalle offese del tempo e della natura. La mancanza di attenzione e di sorveglianza ha consentito inoltre che particolari costruttivi in granito venissero prelavati dalle mani dei soliti ignoti forse per abbellire qualche caminetto in qualche casa, a meno che, gli accorti archeologi non li abbiano stipati in qualche oscuro deposito. Da sottolineare, che ancora oggi nessuna relazione ufficiale è stata messa a disposizione di studiosi e ricercatori sulle scoperte fatte. L’importanza dello scavo archeologico lo imponeva, a meno che i dati emersi non debbano essere patrimonio solo di una cerchia ristretta di studiosi, come purtroppo spessissimo accade e utilizzati per fini personali.

Sarebbe stato utile che il Comune, a fine lavori, trattandosi di un intervento culturale effettuato su di

un bene unico in campo nazionale, avesse organizzato una conferenza stampa per mettere a conoscenza

di ciò che si è fatto sul proprio territorio comunale. Ma, probabilmente gli amministratori di Stilo, non

sono neanche a conoscenza del sito né della sua importanza.

Per me che sono stato tra gli scopritori del villaggio siderurgico di Chiesa Vecchia, e il fautore della

salvaguardia, con il senno del poi mi viene amaramente da dire: era meglio lasciare tutto sotto terra e

consentire all’abbraccio materno della natura di salvaguardare l’opificio, come ha fatto per secoli,

lasciando ai posteri il compito di recuperarlo e tramandarlo meglio alle future generazioni.

FRANCO Danilo

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