Quando, nell’estate di otto anni fa, un fraterno amico originario di S. Ilario allo Jonio (Reggio Calabria) mi propose di andare a visitare uno straordinario manufatto ipogeo conosciuto solo da pochissime persone dei luoghi ad esso limitrofo, non me lo feci certo ripetere due volte: la serietà di Francesco (così si chiama), da tempo trapiantato a Milano, ma che d’estate non rinuncia ad una capatina per riabbracciare le meravigliose sponde dello Jonio natio, non lasciava adito a dubbi su quello che mi aspettava. Ci demmo appuntamento a Condojanni, piccolo e antico centro dominato dai resti di un castello di cui rimane in bella vista una torre quadrata, ma oggi semi abbandonato e ridotto al rango di frazione di S. Ilario: dal castello, guardando a nord, aldilà della vallata entro cui scorre la fiumara di Portigliola, sono visibili ad occhio nudo sulla collina di fronte i resti della cosiddetta Fortezza di Castellace, ovverossia uno dei punti fortificati della cinta muraria dell’antica Locri Epizephyrii. A poca distanza in linea d’aria, la cava di arenaria da cui venivano estratti i blocchi adoperati per la edificazione della cinta muraria dell’antica colonia che, con Kaulon, Reggio, Crotone e Sibari, costituì quella parte di Magna Grecia ormai nota in tutto il mondo per l’immenso patrimonio artistico ed archeologico, di cui, oggi, i celeberrimi Bronzi di Riace e la meravigliosa Persephone di Berlino costituiscono gli esempi forse più noti. Ci avviammo, quindi, su un nastro di asfalto lungo la cresta di una collina, accompagnati dal panorama mozzafiato delle non lontane rive dello Jonio. Con noi, oltre a mio figlio Gianni, altri due amici, Ferdinando e Stefania, milanese di solide radici calabre il primo, bovalinese e laureata in conservazione dei Beni Culturali, la seconda. Dopo qualche minuto, fermammo le auto su una specie di terrazza sul mare, in qualche modo simbolo della Calabria odierna: da una parte la tenuta di campagna del Dr. Speziali (sì, proprio il Cassiere della Banca d’Italia, cioè colui la cui firma spiccava sulle banconote delle ormai obsolete lirette italiane), dominata da un severo casolare padronale in rovina e dalla chiesetta di S. Anna, dove tuttora gli Speziali organizzano annualmente una piccola festività incentrata su una funzione religiosa che si svolge nel piccolo edificio sacro dall’altra, un grosso e moderno edificio, che, pare, doveva ospitare un Centro per anziani, ma che, pur terminato, non è mai entrato in funzione. Adiacente ad un lato della recinzione del Centro anziani, Francesco indicò un viottolo, che, in verità, solo lui riusciva a vedere, coperto com’era da una fitta rete di siepi e spini. Dopo nemmeno un centinaio di metri in una scarpata scivolosa e nascosta alla vista dalla vegetazione selvatica, all’improvviso la vista della vallata del Portigliola e, dietro un’altra siepe, la bocca di una spelonca, parzialmente coperta da un grosso albero forse franato dall’alto. Incredibile: l’antro stava lì, a pochi metri dalla strada, ma non fosse stato per l’avviso di Francesco, ci saremmo tranquillamente passati davanti senza minimamente accorgercene. L’imboccatura, però, non era naturale, ma un manufatto parzialmente crollato, con i residui di una piccola apertura ad altezza d’uomo, dietro il quale si intravedeva il buio percorso della grotta (foto 3). La parte di muro crollata, peraltro, formava un piccolo sbarramento, dietro cui uno specchio d’acqua rifletteva magicamente luci e colori dell’esterno, lasciando defluire un rivolo che lentamente si inoltrava nella campagna sottostante. Un po’ impreparati a quella presenza d’acqua, ispezionammo solo la parte iniziale della grotta, ma già le luci delle torce tascabili lasciavano intravedere un primo, profondo, ambiente. E, sullo sfondo, un vano che conduceva ancora più internamente. Il tempo di attrezzarci adeguatamente, e, qualche giorno più tardi, potemmo ispezionare quello che si presentava già come un complesso rupestre di sensazionale bellezza. La presenza di piccole stalattiti sul soffitto e di notevoli concrezioni calcaree sulle pareti concorreva a far supporre un lunghissimo periodo di inutilizzazione della grotta se non come sorgente: il muro all’imbocco serviva appunto a raccogliere l’acqua, che, poi, raggiunta l’altezza del foro di cui si è fatto prima cenno, fuoriusciva all’aperto. Per questo motivo, tra l’altro, il sito era conosciuto come sorgente (è anche così riportato in mappa catastale), al pari dei tanti manufatti sparsi un po’ dovunque nel territorio (i “catusi”, cioè una sorta di cunicoli scavati nelle pareti collinari, entro cui, per trasudazione, si raccoglie un po’ d’acqua, incanalata all’esterno da una specie di condotto a cielo aperto, la “mastra”). Sul fondo di questo primo ambiente, parallelamente alla sezione di imbocco, una parete perfettamente liscia, al centro della quale un varco, della profondità di quasi 2 metri, che conduceva ad un secondo ambiente: la particolarità di questo varco era data dalla forma ad arco a “sesto acuto” del traverso superiore, che denotava ulteriormente la fattura antropica dell’intero complesso Superato il varco, fummo per un lungo istante letteralmente paralizzati dallo stupore: un ambiente a pianta circolare, con le pareti perimetrali che si innalzavano verticalmente per circa 2 metri, per poi assumere una conformazione a cupola, con un’altezza interna massima di circa 4.00-4.50 metri in posizione fondale, perfettamente in linea con l’asse longitudinale dell’intero complesso e con il varco di collegamento, una piccola nicchia, anch’essa apparentemente sormontata da un arco a sesto acuto, delle dimensioni di circa 60 x 100 cm ed una profondità di ca. 40. Ci venne spontaneo definirlo il “Sancta Sanctorum” del complesso. All’interno di questo, un altro incavo, di dimensioni molto ridotte (10 x 20 cm, per una profondità di un’altra decina di cm), che appariva essere la vera e propria bocca della sorgente, essendo in tal punto lo stillicidio un po’ più copioso e continuo. Alla base della “nicchia”, consistenti concrezioni minerali, bianchissimi, stratificati e declinanti verso il centro dell’ambiente: all’apparenza sembrava candido marmo, ma in realtà ci si affondava come nella fanghiglia, e la sua immacolatezza ci diede la netta impressione di essere i primi, da tantissimo tempo, ad avventurarci sino a lì. Parzialmente inglobati in questo ammasso di concrezioni, si intravedevano alcuni elementi litici (uno a forma concava, per metà emergente dalle concrezioni, apparentemente sbozzato a mano), e alcuni blocchi squadrati di circa 60 cm di lunghezza che, a prima vista, sembravano di fattura umana. Sulle pareti, ad un’altezza da terra di circa 3.00 m, erano ancora a fatica visibili dei piccoli fori, di qualche cm di diametro e profondità, forse effettuati per l’alloggiamento di fiaccole. Il cielo, come detto a cupola, era interamente rivestito di piccole stalattiti, ciascuna sede di uno stillicidio piuttosto limitato, mentre le pareti verticali presentavano in più punti delle vistose concrezioni a forma di foglia d’agave. Per un’altezza dal piano di calpestio di circa 1.50 m era visibile una sorta fascia di colore scuro, che, per le concrezioni che la ricoprivano, non era possibile identificare come colorazione artificiale, piuttosto che l’impronta stessa del livello raggiunto dell’acqua quando la grotta funzionava da sorgente. Non erano visibili, al momento, altri segni e/o simboli incisi sulle pareti, né altri tipi di manufatto, oltre a quelli lapidei cui si è accennato prima. Ambedue gli ambienti, a causa dello sbarramento all’imbocco del complesso, erano allagati per un’altezza di circa 60 cm, e sul fondo si “sentiva” la presenza di vegetazione acquatica “a tappeto”, il che impediva di valutare la tipologia e la geometria della pavimentazione. Naturalmente, subito dopo le prime visite, si provvide a fare segnalazione ai responsabili della Soprintendenza ai Beni Archeologici competenti per territorio, e, poi, a guidare sul posto la Dott.ssa Rossella Agostino, che confermò immediatamente l’interesse scientifico per il complesso, assumendo in prima persona la gestione della ricerca scientifica.
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Notizia tratta da: famedisud.it ripresa anche da ciavula.it