Gio. Nov 21st, 2024

I partiti in Italia, concepiti come luoghi della militanza e fucina di politici e amministratori illuminati, non esistono più o per la maggiore sono in agonia da diverso tempo, un tempo che in molti riconduciamo alla celebre inchiesta di Tangentopoli negli anni ‘90. Una trasformazione, quella dei partiti, che ha determinato la nascita di aggregati liquidi e leaderistici, la prima grande e preoccupante disfunzione della nostra democrazia, a cui ha fatto seguito il deterioramento e la perdita di credibilità delle istituzioni liberali. Basti pensare allo svilimento dei Parlamenti, con i singoli deputati che, una volta eletti attraverso liste bloccate, sono sovente invisibili o insignificanti, considerati tuttalpiù come pedine di una manovra funzionale alla fedeltà al leader o al brand che, di fatto, li nomina in Parlamento. Quello dei partiti ‘non-partiti’, dei comitati elettorali, legati a bolle di consenso generate alternativamente da presunti leader, o da fenomeni mediatici in voga, è un orientamento che emerge in tutta Europa e, in gran parte, nell’Occidente. È un fenomeno che si caratterizza nell’inversione del rapporto tra idee e consenso: non si discute più delle idee sulle quali ottenere consenso ma si costruiscono nell’immaginario collettivo idee e nemici funzionali al consenso da ottenere.

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Un’organizzazione politica che ha come obiettivo la vita democratica del Paese e dello Stato, non può considerare le regole democratiche e i processi decisionali o di formazione e selezione della classe dirigente come delle perdite di tempo. E’ destinata, quell’organizzazione, unicamente alla produzione bruta e materialista di un contenuto falsato o basato su antichi stereotipi, spesso non adattabili al contesto in cui viviamo ma che intercettino consenso al solo fine di occupare il potere, tralasciando l’importanza della forma in uno Stato di Diritto.

In questo quadro, l’Italia del Meridione è una forza politica che s’inserisce non in un campo ideologico ascrivibile al centrodestra o al centrosinistra, bensì in quel campo di idee che sintetizzano e valorizzano le diversità culturali, in un’ottica meridionalista. Quel campo di idee che spesso viene bistrattato perché al di fuori delle congetture novecentesche, quasi come a volerne sollevare una questione di natura morale o etica, ignorando capziosamente la vocazione pluralista che la nostra Costituzione sancisce nel diritto della rappresentanza e della rappresentatività.

Ma partiamo da un presupposto: l’IdM è un movimento, organizzato in partito politico, costituzionale. Trova cioè le proprie ragioni fondanti nell’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui esso cita che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Poiché il fallimento dei governi di ogni colore politico succedutisi nell’ultimo ventennio è certificato da qualsiasi indicatore economico, l’Italia del Meridione supera la dicotomia destra/sinistra per dare voce e rappresentanza a coloro i quali non si rivedono più, e quindi rappresentati, dai cosiddetti partiti tradizionali.

Quella del meridionalismo, è una storia ascrivibile alla volontà e all’impegno politico di grandi pensatori che, seppur appartenenti a forze politiche diametralmente opposte, hanno prima contribuito con la loro azione politica allo sviluppo materiale del Mezzogiorno e poi, seppur da analisi di partenza e proposte risolutive differenti, alla nascita della cosiddetta “questione meridionale”, un fattore culturale che da sempre tiene di fatto diviso il Paese in due: penso a Pasquale Saraceno, a Giustino Fortunato, ad Alcide De Gasperi, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci. Insomma, nonostante la storia ne ha cambiato i connotati economici e tecnici, l’essenza della questione meridionale resta quella indicata dai grandi meridionalisti del passato e cioè di una trasversale questione etico-politica mai pienamente affrontata dai partiti e dai governi, una questione che investe le fondamenta dello Stato unitario e corrode di giorno in giorno il collante che tiene uniti i nostri territori e quel senso di comunità da sempre caratteristico del Mezzogiorno. Credo, dunque, sia giunto il momento di mettere in discussione gli stessi modelli offerti dalle storiche ideologie, chiedendoci se esse possano bastare, a prescindere dai colori, per porre le basi di un reale progresso sociale. Manca in esse, quel riscontro che traduce un elaborato teorico in concretezza, quale forza propulsiva che valorizza fattivamente l’elemento centrale d’analisi che è mancato in tutti questi anni: la territorialità e tutto ciò che concerne la valorizzazione delle relative vocazioni. Non basta parlare di diritti individuali alla stregua dell’idea liberale se non immaginiamo forme concrete di esplicazione di quei diritti, così come non serve parlare di giustizia sociale, nell’ottica socialista, se non ci accorgiamo delle dinamiche evolutive di una determinata società che ci consegnano i riferimenti indispensabili affinché possa in effetti realizzarsi una siffatta giustizia. Bisogna, allora, rivedere i metodi tradizionali di riflessione e di selezione del ceto politico, senza smentire gli approfondimenti teorici delle variegate culture politiche ma studiando approfonditamente l’esistente.

Ecco, è nella ferma consapevolezza che la questione del superamento del divario Nord/Sud sia anche una questione di unificazione politica, che si basa l’impegno dei tanti militanti e dirigenti di Italia del Meridione. Un impegno che rifiuta l’ormai superata ‘non-logica’ populista ma si fonda su una reale conoscenza della cosa pubblica, della sua gestione e dei relativi problemi da affrontare (tra questi, la continua iniqua distribuzione di risorse da parte dello Stato), su una reale conoscenza delle vocazioni territoriali come volano di sviluppo del tessuto economico e sociale, su una reale militanza che rifiuta i meccanismi di cooptazione dei partiti centralisti ma che dialoga con gli stessi, in una normale dialettica politica che valuta i programmi e le persone, prima delle ideologie novecentesche le quali, spesso, non trovano riscontro nell’azione di governo di chi le ostenta. Con un pizzico di orgoglio posso asserire che l’IdM è un valore aggiunto in un sistema partitico calabrese caratterizzato da un vulnus democratico suffragato dai dati sull’astensionismo, sul calo di iscrizioni ai corpi intermedi e sull’assenza di coinvolgimento tra la classe dirigente e la società civile. È nel rispetto delle diversità culturali e ideologiche che cerchiamo di agire, pacificando questa terra già troppo martoriata dagli egoismi e dai particolarismi che hanno disgregato il nostro popolo. È tempo di non delegare più, è tempo di fare politica in prima persona, da persona a persona, per il bene comune, per il bene del Sud e quindi dell’Italia.