Mar. Lug 16th, 2024
Franco Fortugno foto Francesco Cufari Reggio Calabria

Il procuratore Federico Cafiero de Raho ha scelto Locri per dare la notizia. L’ha fatto a poche centinaia di metri dal luogo dove l’ex vicepresidente della Regione Francesco Fortugno venne assassinato il 16 ottobre 2005, scandendo parole che molti non hanno colto nella loro effettiva portata: «sui mandanti dell’omicidio dell’onorevole Francesco Fortugno si stanno ancora svolgendo degli approfondimenti». Non ha parlato a chiare lettere di indagini ma le parole pronunciate davanti agli studenti dell’istituto Mazzini di Locri sono per un certo verso una vera e propria bomba e una risposta alle domande che molti si ponevano da un pezzo, domande su quella zona grigia che sembra da sempre fare da sfondo al delitto calabrese eccellente ma ancora non afferrata.
La vedova del politico ammazzato durante le primarie del centrosinistra, Maria Grazia Laganà, questa domanda se la pone da dieci anni, ovvero da quando suo marito venne barbaramente ucciso «con un gesto altamente simbolico – ha ricordato de Raho -, ovvero mentre si esprimeva il diritto fondamentale del voto». E ancora di più l’aveva posta a settembre scorso, dal palco della festa regionale dell’Unità a Cosenza nella giornata dedicata al politico, quando ha riannodato i fili di un’indagine lunga e complessa, che ha portato a cinque sentenze e all’ultima condanna a luglio 2014, con l’ergastolo confermato in Cassazione ad Alessandro Marcianò, ex caposala dell’ospedale di Locri, ritenuto la mente di quel delitto eccellente, consumato a Palazzo Nieddu. «L’omicidio di mio marito – ha dichiarato in quell’occasione l’ex parlamentare – è stato definito da chi ne sa più di me un omicidio politico-mafioso. Allora la mia domanda, legittima, è se c’è una zona grigia».
Le parole di de Raho, dunque, sembrano voler confermare l’esistenza di un livello ancora da sondare, mentre ricorda un altro delitto, quello dell’imprenditore Cecè Grasso, rimasto senza colpevoli dopo 27 anni. Un imprenditore ucciso perché non ha voluto pagare la mazzetta e aveva deciso di denunciare. Fortugno, invece, doveva pagare con la vita l’elezione in consiglio regionale, ottenuta con oltre 8500 voti. Doveva pagare perché i Marcianò, elementi vicini al clan Cordì, avevano supportato un altro candidato, Domenico Crea, poi subentrato a Fortugno ma mai indagato per quel delitto. Prima del caposala, nel 2012, erano stati condannati al carcere a vita suo figlio Giuseppe, Domenico Audino e Salvatore Ritorto, battezzati come gli esecutori materiali dell’omicidio. «È acclarato che le persone già condannate sono colpevoli e a stabilirlo sono indagini basate sulle parole di due pentiti ritenuti attendibili – sottolineò ancora la Laganà, oggi presente in sala -. Se dovessero emergere elementi nuovi su questa vicenda si potrebbe fare chiarezza anche sull’altro livello, del quale spesso si parla. Naturalmente, rispetto ad altri posso ritenermi, si fa per dire, più “fortunata” per avere avuto giustizia. C’è chi non l’avrà mai». Uno di quei pentiti, Bruno Piccolo, è morto suicida; l’altro, Domenico Novella, un ex scagnozzo del clan Cordì, vive in un luogo tenuto segreto. I clan avrebbero fatto di tutto per farli tacere. Prima di iniziare a riempire verbali, entrambi hanno ricevuto una lettera del boss Vincenzo Cordì. «L’importante in questi luoghi – scriveva – è stare tranquilli e farsi la galera con onestà. Parlare poco, solo quando è necessario. Si deve uscire a testa alta». La zona grigia più volte evocata nel corso degli anni sembra riapparire ogni volta che Maria Grazia Laganà ricorda le denunce pubbliche di Fortugno sulla sanità. Denunce ritrovate in un archivio dell’ospedale di Locri, dopo quattro anni di letargo, e presentate alla procura di Locri il 23 febbraio del 2002. Un «testamento che scotta» col quale venivano denunciate delibere illegittime, assunzioni sospette e consulenze milionarie dell’ex Asl 9 di Locri, poi commissariata per infiltrazioni mafiose. A far ritrovare quei faldoni fu proprio la vedova Fortugno. «Quando il fascicolo venne rirpeso – raccontò -, l’udienza venne fissata dieci giorni prima che quei reati cadessero in prescrizione. Io e i miei figli ci eravamo costituiti parte civile ma poi ci siamo ritirati, perché non volevamo partecipare ad alcuna farsa».

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Simona Musco tratto da zoomsud.it

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