di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Ci sono lacrime che, negli ultimi tempi, più delle parole costruite con accenti e con suoni, ci hanno costretti a una profonda riflessione, carica di trattative morali. Al centro la specie umana, sempre più insolente e irrequieta. Quasi reminiscente verso la sua stessa genesi. Sono quelle di Nicola Gratteri che, sono certa, molte altre sono state le volte che dai suoi occhi sono traboccate miste a sangue, seppure in scortato segreto. Quelle secrezioni liquide che abbiamo visto rivestire le superfici congiuntivali del procuratore della Repubblica di Catanzaro, appena qualche giorno addietro, nel famoso salotto romano di Maurizio Costanzo, le cito e non perché, e qui scredito di fatto la versione bastarda e irregolare dei falsi stakanovisti, hanno certo portato allo scoperto la debolezza dell’uomo né la sua fragilità, ma perché hanno messo in risalto senza alcuna fanatica ostensione, la purezza della paura. Che non è mancanza di coraggio, o stato di assoluto avvilimento, ma naturale stato emotivo.
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Il pianto, che nell’uomo è l’espressione della commozione o del dolore, in botanica, è l’emissione della linfa ascendente dalla ferita praticata su una radice o alla base del fusto. Ma non sono forse la stessa cosa il pianto dell’uomo e quello della botanica? L’uomo e la botanica, non sono, forse, due elementi che coincidono perfettamente?
Nicola Gratteri è uomo, è albero ed è radice. Tutti lo siamo. E tutti piangiamo alla maniera dell’uomo e della botanica.
Ma ci sono lacrime, e qui sta la vera questione, che fanno male più di molte altre. Hanno un peso specifico più eccedente rispetto alle altre. E nel momento dell’attrito con il viso lasciano sulla pelle segni più profondi delle altre. E solcano senza potervi in quei solchi piantare nulla. Fendono l’anima incavandola fino all’estremo, e raggelano il sangue nelle vene, metastatizzino la sconvolgente umana inquietudine.
Io non ho visto piangere Nicola Gratteri, il procuratore, dietro lo schermo del mio televisore, qualche sera fa, ho assistito, invece, alla commozione di Nicola e basta. Nicola, nato a Gerace, in Calabria, il 22 luglio 1958, terzo di cinque figli, e un amore e un rispetto innati nei confronti della propria terra. Nicola che è figlio, appunto, è marito, è padre, è amico, è missionario totus tuus in una Calabria pellegrina, sempre poco fiduciosa in se stessa, e invece più fiduciaria negli altri. In una terra a tratti asciutta a tratti umettata, nella quale o ci rimetti la vita, o ci rimetti il cuore. E se non sai scegliere, ce li rimetti entrambi.
Nicola è uno di quelli che ha deciso di rimanere in Calabria. Uno di quelli che nella terra della nascita ha deciso di investire tutto ciò che ha. Persino le lacrime. Tanto che il pianto neppure lo discute. Succede. Capita piangere. E va bene così.
Sulle lacrime di Gratteri che, sì, è vero, si sono fermate sul suo viso, ma hanno altrettanto veramente bagnato il viso di molti, abbiamo riflettuto in tanti, e non perché esse vadano spiegate, o forse censite, messe agli atti come elementi probatori, ma capite sì. Concepite, come dai i grembi i figli, sì.
Caro, Nicola Gratteri, e parlo all’uomo, che se lo facessi al procuratore sarebbe pura retorica, questa terra chiede il doppio di quello che dà. E lei lo sa bene.
Ti dona un sorriso e ti chiede in cambio due lacrime; ti dona una mano e da te ne pretende due; ti offre la sua casa ma ti costringe al tuo viaggio; ti regala la sua vita, ma non ti concede di vivere la tua. Ti prepara l’orto ma non ti consente di lavorarlo libero.
È amara, la Calabria. È subdola, selvaggia, è una grandissima figlia di puttana. Ma la terra siamo noi, noi che di questa Calabria siamo il bello e il brutto, il buono e il cattivo, la pecora o il lupo.
E il pianto suo è anche nostro. Degli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i ruffiani, i piglianculo, i quaquaraqua. Di tutta questa categoria di scimmie, è il pianto dell’uomo.
Il pianto suo è colpa della nostra incapacità di volerci bene, dando al pane più valore che alla preghiera, al vino più importanza che all’acqua.
Il pianto suo, caro Nicola, non è paura, è affollata solitudine. E quella che si vede intorno a lei è una solitudine che mette paura. Porta i brividi. Delude e disillude, e forse certe volte anche corrompe. Nicola Gratteri è uno e non ha nessuno, se non i famosi cento anni di solitudine già a 63 anni di età.
La questione sociale di cui è protagonista Antonello dell’Argirò, in Gente in Aspromonte, il capolavoro di Corrado Alvaro, si ripete. E proprio per colpa della solitudine ingarbugliata a cui alcune volte anche lo Stato costringe, continuerà a proliferare. Una moltiplicazione che più che paura, fa terrore, sconvolge ogni genere di morale.
Non oso immaginare quante volte, Nicola Gratteri, abbia ripetuto a memoria le parole di Antonello, che chiosano il racconto: «Finalmente potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio». Una pagina di letteratura e di vita che racconta l’amara solitudine dei luoghi e di chi li abita. Di chi li difende. Di una Calabria che quando è culla è già sepolcro.
Non la chiamo eroe, caro Nicola Gratteri, ai tempi della Magna Grecia lo sarebbe stato davvero. Figlio degli dei lo avrebbero considerato. Ne sono certa. Ed essi le avrebbero concesso la forza per sconfiggere la paura. Ma noi siamo uomini, e le verità degli dei non sono nostre. La storia, però, sì.
E lei è il mito di Davide, il giovane studente del Liceo Scientifico G. Berto di Vibo Valentia, e forse anche di Golia. Il riferimento certo di Abele e, sotto sotto, anche di Caino.
Per questo il suo pianto non lo chiamo paura, ma coraggio.
“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”. (Giovanni Falcone) (gsc)
fonte CALABRIA.LIVE