Si indaga sulle cause dell’incendio che è costato la vita al senegalese Sylla Noumo. Sul posto il procuratore Sferlazza. L’indignazione del comitato di riutilizzo delle case
Continua....
Plastica bruciata, immondizia bagnata, terra arsa. A San Ferdinando la tragedia puzza. E si ripete, uguale a se stessa, anche sotto le tende blu ministeriale, che secondo la prefettura di Reggio Calabria avrebbero dovuto essere la soluzione ai problemi e al degrado del ghetto. Ma come le baracche buttate giù dalle ruspe del genio militare uccidono. L’ultima vittima si chiamava Sylla Noumo, 32 anni, senegalese. È morto bruciato come Moussa Ba a febbraio, Suruwa Jaithe a dicembre e Becky Moses prima di lui. A differenza loro, la sua pira non è stata una baracca mal costruita del ghetto, ma una tenda del ministero, ufficialmente ignifuga e più sicura.
INCENDIO DURANTE LA PREGHIERA DEL MATTINO Il rogo che lo ha ucciso è divampato questa mattina attorno alle 6.30. «Stavamo facendo la preghiera del mattino in moschea e mi è sembrato di sentire un rumore strano – racconta Ibrahim – ho capito che era fuoco e sono rimasto scioccato. Non ci dovrebbe essere questo problema qui». Chi era in moschea si è precipitato a prendere acqua e secchi, qualcuno ha avvisato i vigili del fuoco, che da tempo stazionano vicino al campo. «All’inizio sono venuti con gli estintori, fra le tende non c’è spazio abbastanza per far passare i mezzi» dice un ragazzo che ha assistito al rogo. Solo quando l’autobotte è riuscita a posizionarsi fuori dal recinto del campo, in corrispondenza della tenda, sono entrate in azione le manichette. Le fiamme sono state domate, nessun’altra tenda è stata danneggiata. Solo quella accanto mostra qualche striscia nera di fumo. Per Sylla però non c’era più nulla da fare.
GIALLO SULLA DINAMICA Il suo corpo giaceva riverso a terra, supino, le braccia alzate, le gambe leggermente piegate, un po’ discosto dagli scheletri delle brandine che il fuoco ha consumato. Non è ancora chiaro se in quel momento il ragazzo fosse da solo in tenda, se i suoi compagni in quel momento fossero in moschea a pregare o se siano riusciti a scappare prima che scoppiasse il rogo. Nelle fasi concitate seguite all’incendio sembrava che nessuno riuscisse a trovarli. In più, un corto circuito sembra abbia mandato in tilt il sistema che registra gli ingressi, azzerando o danneggiando i dati. Anche per questo sono passate ore prima che la vittima venisse identificata. L’ufficialità è arrivata solo attorno a mezzogiorno, quando un parente, in lacrime, è stato portato in obitorio per il formale riconoscimento della salma.
CORTO CIRCUITO? Sul rogo invece sono partite le indagini. «Colpa di un corto circuito» si commentava in mattinata. «Qui ci sono fili sparsi, multiprese, ognuno fa quello che vuole, soprattutto – dice un ragazzone guineano di 30 anni, da tempo ormai ospite della nuova tendopoli – da quando sono arrivati “quelli”». Sono gli ex abitanti del ghetto, dopo lo sgombero trasferiti in blocco nella nuova tendopoli. E dove vivevano 400 persone, adesso ci stanno in quasi 900. «Non si passa neanche fra tenda e tenda, questa mattina – aggiunge – poteva essere una strage». Dice di chiamarsi Marco e ci prova ad avvicinarsi al prefetto Michele di Bari per parlare «per dire – spiega – quali sono i problemi qua. Ma non mi fanno parlare». I funzionari della polizia lo allontanano, lo ascoltano e ci parlano a lungo. Nel frattempo in tendopoli arriva il procuratore capo di Palmi, Ottavio Sferlazza.
L’INDAGINE È lui a dirigere la procura che nell’ultimo anno è stata chiamata a indagare sugli incendi avvenuti nel ghetto. Ma questa volta ha voluto procedere personalmente al sopralluogo, insieme ai tecnici dei vigili del fuoco che per tutta la mattinata hanno proceduto con i rilievi. Quella del corto circuito è infatti solo una delle ipotesi al vaglio degli inquirenti. Sembra che il rogo sia partito da una matassa di cavi e fili scoperti vicino all’ingresso e da lì le fiamme si siano rapidamente propagate. «È vero che le tende sono ignifughe – spiega Sferlazza, dopo aver parlato con i tecnici – ma questo non significa che non brucino, ma solo che la combustione è molto più lenta». Un dato che tuttavia non contribuisce a chiarire la dinamica, i tempi in cui si è sviluppato l’incendio e soprattutto perché da quella tenda Sylla non sia riuscito ad uscire. Magari una risposta potrà arrivare dalle telecamere interne. Gran parte del budget di gestione della tendopoli va via per la sicurezza, in teoria non si entra e non si esce senza badge e le videocamere sorvegliano il campo. «Ma evidentemente non per tutelare noi che ci viviamo» dice uno degli abitanti.
IL J’ACCUSE DEI COMITATI «La responsabilità di quest’ennesimo morto è della Prefettura e del ministero dell’Interno» tuona Nino Quaranta, del comitato per il riutilizzo delle case sfitte della Piana, nato proprio per agevolare l’integrazione abitativa dei braccianti e dei senza casa. «In tasca – dice lo storico attivista – ho una lettera del sindaco di San Ferdinando che sollecita lo screening degli appartamenti confiscati che potrebbero essere destinati ai braccianti, ma nessun passo è stato fatto in questo senso. Secondo loro lo sgombero avrebbe dovuto essere la soluzione a tutti i problemi e invece questa è la prova che le dinamiche di ghetto sono solo state spostate di cento metri».
«SGOMBERO ELETTORALE, CASE UNICA SOLUZIONE» Non meno infuriati i braccianti delegati dell’Usb. «Tende, recinti e controlli non sono stati una soluzione ma un ottimo specchietto per le allodole, magari elettorale, che in realtà è servito solo per spostare il ghetto». Molti di loro ci vivevano, ma quando è stato sgomberato hanno deciso di andare via e trovare soluzioni alloggiative alternative in zona. «C’è troppa gente, in uno spazio troppo piccolo, è troppo pericoloso» dicono. Qualcuno ha affittato un posto letto a casa di connazionali, qualcuno si è arrangiato, altri stanno ancora cercando di capire cosa fare. «È fondamentale e urgente – dicono dal sindacato – operare affinché sia possibile riutilizzare le case vuote nella zona, per innescare un circolo virtuoso, superando le diffidenze e coinvolgendo la popolazione, per cui a queste persone sia restituita la dignità di esseri umani e lavoratori, affittando autonomamente le case negli abitati e contribuendo alla vita collettiva». Ma in prefettura si continua a parlare solo di moduli. «Ghetti di tende, ghetti di legno, è così difficile considerarci lavoratori che hanno bisogno di una casa?» dice uno dei ragazzi. Poi prende la sua bici e va via. (a.candito@corrierecal.it)