Mer. Lug 17th, 2024

Secondo la Dda di Reggio Angela Tibullo, volto noto della “tv del dolore”, poteva contare su una rete ramificata per ottenere trattamenti di favore per alcuni boss della Piana. Ma è stata denunciata da un professionista che non ha ceduto alle sue “offerte”

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«Mi fece il nominativo di molti medici che aveva saputo ricompensare adeguatamente». Per «una perizia psichiatrica favorevole alla scarcerazione per un suo cliente che aveva una patologia assolutamente blanda», uno dei suoi “consulenti” aveva preteso soldi. Un altro invece era stato «ripagato, non con l’erogazione di denaro, ma con la prestazione di escort». Erano questi i metodi su cui la criminologa Angela Tibullo, secondo la Dda di Reggio Calabria, poteva contava per diventare la «regina della penitenziaria».

 

DIRITTI TRASFORMATI IN MERCE Trentasei anni, una laurea in Giurisprudenza apparentemente faticosa e un paio di master conseguiti fra università telematiche e atenei tradizionali, Tibullo era un volto noto della cosiddetta “tv del dolore”. Dalla “Vita in diretta” a “Un giorno in pretura”, la criminologa era una habitué dei salotti televisivi, come dei convegni su carceri e detenuti organizzati in mezza Italia. Ma per il gip Laganà, che su richiesta del procuratore aggiunto Gaetano Paci e del pm Adriana Sciglio ne ha disposto l’arresto nell’ambito dell’operazione contro il clan Grasso-Cacciola di Rosarno, proprio lei sarebbe responsabile di aver trasformato il diritto alla salute costituzionalmente garantito ai detenuti, in una merce, appannaggio di chi poteva pagare la malafede di fin troppi consulenti. A denunciarla è stato un medico, che alle sue offerte e ai suoi ricatti ha deciso di dire di no. Anche di fronte alle velate minacce della donna non ha ceduto.

LA PERIZIA TELECOMANDATA Incaricato da Tribunale di valutare le condizioni cliniche dell’anziano boss Teodoro Crea, lo specialista ha incontrato Tibullo a Milano. Del vecchio capobastone, la criminologa era infatti consulente di parte. Ma dopo la visita, lo specialista ha ricevuto dalla donna richieste neanche troppo velate. Tibullo, insieme al suo collega Francesco Busardò, ha atteso il dottore fuori dalla carcere. La scusa? Un normale invito a pranzo. Il vero obiettivo? Una perizia telecomandata. «Durante il pranzo – ha raccontato il medico ai magistrati – la Tibullo mi ha sollecitato reiteratamente una perizia favorevole al suo assistito, dicendomi che se fosse riuscita a far scarcerare il Crea sarebbe divenuta la “regina della penitenziaria”». Allusioni che il professionista ha più volte ignorato o lasciato cadere, costringendo la criminologa a diventare più esplicita. Ai magistrati, il dottore ha raccontato che la donna gli avrebbe assicurato «che avrebbe saputo compensarmi adeguatamente, ove avessi aderito alle sue richieste di valutare le condizioni del Crea incompatibili con il carcere». In tanti, gli avrebbe assicurato, non si sarebbero sottratti e soprattutto «nessuno di loro era rimasto insoddisfatto della ricompensa ricevuta». Escort, denaro, la promessa di entrare nel giro delle consulenze e delle perizie di parte. In tanti si sarebbero fatti comprare. Chi invece non è stato al gioco o si è rifiutato di prendervi ulteriormente parte, lo ha pagato. O almeno così ha raccontato la criminologa al professionista che tentava di corrompere. «Mi ha parlato anche di un medico suo amico che si era rifiutato di redigere una perizia favorevole ad un suo assistito, specificandomi che si era vendicata del predetto, escludendolo dal suo “giro” di consulenze, danneggiandolo a livello lavorativo».

LA RICOMPENSA Una vaga minaccia, subito corretta da un’autocertificazione di generosità. «Per invogliarmi – ha messo a verbale il medico di fronte ai magistrati – mi chiarì anche che l’ultimo perito che aveva “ricompensato” si era “fatto la Pasqua” con quello che aveva da lei ricevuto e, probabilmente, si era fatto pure l’estate». Il pagamento poi non sarebbe stato un problema. Si sarebbero organizzati per fare tutto lontano da occhi indiscreti. «Mi precisò – ha aggiunto infine il professionista – che non ci sarebbero stati ulteriori contatti tra di noi e che, dopo il deposito della perizia, ove fosse stata favorevole al suo assistito, io avrei potuto chiamare il Busardò per concordare l’incontro presso il suo studio dove avrei potuto ricevere la mia ricompensa». Quello di Tibullo era un metodo rodato, che non sembrava tenere neanche in conto la possibilità che uno dei medici si sottraesse alle sue richieste.

«QUESTA CARTA QUA COSTA DIECIMILA EURO» Di certo – hanno scoperto i magistrati che subito dopo la denuncia del dottore hanno iniziato a indagare sulla criminologa – non si è tirato indietro uno dei periti nominati per valutare le condizioni di Rosario Grasso. Nella perizia che gli ha permesso di andare ai domiciliari, uno dei consulenti attestava che «risulta affetto da dolori lombosciatalgici così acuti da giustificare la sua scarcerazione per incompatibilità con il regime carcerario». Peccato che prima di essere arrestato, Grasso si dedicasse abitualmente a lavori manuali e di ristrutturazione di edifici. Ma i “servizi” offerti dalla criminologa non si sono limitati al confezionamento della perizia.
È stata lei – hanno scoperto gli investigatori – a procurare all’uomo e a programmare una serie di “visite” per allontanarlo da Rosarno. «Una volta che tu sei a Roma tu sai a villa Fulvia qual è la cosa… poi io ti porto all’Umberto I e facciamo certi esami, ai Cavalieri di Malta e facciamo certe analisi, a villa… inc. e facciamo la visita neurologica». E quando Grasso fa le bizze perché non vuole allontanarsi dalla Calabria in prossimità della nascita del figlio è sempre lei a trovare la soluzione. Per un altro affiliato al clan, è lei ad adoperarsi per trovare un appartamento a Roma in cui trascorrere i domiciliari. O a falsificare documenti e autorizzazioni. Tutti servizi che ovviamente hanno un costo. «Questa carta qua costa diecimila euro» dice senza mezzi termini a Domenico Grasso, capo dell’omonimo clan e padre di Rosario.

IL SISTEMA Ma ore di intercettazioni telefoniche e ambientali hanno permesso anche ai magistrati di comprendere quanto ampio e ramificato fosse il sistema criminale costruito da Tibullo, che poteva contare anche su agenti della polizia penitenziaria e personale dell’ospedale militare di Roma per ottenere notizie riservate sullo status di detenuti e sul contenuto della loro cartella clinica, ma anche per verificare che i messaggi dai lei inviati fossero correttamente avviati a destinazione. Tutti servigi che per il gip Laganà bastano a dimostrare come la criminologa fosse «un prezioso strumento per i membri del sodalizio». E ne fosse pienamente consapevole.

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