Ben poco si sa di questa piccola cellula monastica nei primi decenni della sua esistenza e nessuna notizia in merito alla sua denominazione originaria.
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Si sa che il piccolo monastero fu fondato sul finire della dominazione Bizantina da un ricco possidente di Stilo, un certo Gerasimo Atulino che, sul finire della sua vita terrena, volle edificarlo su di un proprio terreno.
Gerasimo fu il primo Egùmeno. Ad esso succedette, come quasi sempre accadeva, il figlio Bartolomeo.
Ed è questi che, nel dettare il proprio testamento risalente al 1101-1102, ci consente di datare con una certa approssimazione il monastero e risalire quindi ai primi anni della sua esistenza.
Nel proprio dispositivo testamentario Bartolomeo dichiara che il cenobio fu fondato da suo padre sul finire del dominio Bizantino. Nel testo nessun cenno al nome che il monastero aveva all’atto della sua fondazione, mentre da due precedenti documenti risalenti al 1096 e al 1098, si evince che, alla stesura degli atti, fosse intitolato già a San Giovanni.
Il cenobio si presuppone, quindi, sia stato fondato intorno all’anno 1050.
In merito al nome originario, che qualche storico locale indicava, errando, in Santa Maria del Magistro, si può presupporre che esso fin dalla sua fondazione fosse dedicato al Santo Mietitore.
Il sopraggiungere dei Normanni nel sud Italia e la conquista della Calabria completata nel 1059, determinò un ulteriore sovvertimento della vita politica e religiosa della regione.
I mitici uomini del nord, dopo essersi scontrati nel 1053 con il Papa Leone IX (1049-1054), divennero in seguito, dopo la separazione tra le chiese, avvenuta più che per motivi religiosi, per motivi di mera opportunità politica, i vassalli e i difensori del papato ed assecondarono la latinizzazione delle terre meridionali.
Roberto il Guiscardo, a seguito del giuramento di vassallaggio fatto nel 1059 al Papa Niccolò II (1058-1061), non si mise a combattere e ad eliminare il rito ortodosso, ma si impegnò in una accorta e cauta politica di annessione religiosa, atta a ricondurre all’obbedienza romana le sedi vescovili che si trovavano sotto la giurisdizione del Patriarca di Costantinopoli.
In conseguenza di ciò la condizione essenziale per un presule greco di mantenere la propria diocesi, come pure per la stessa sopravvivenza dei monasteri greci, era quella di riconoscere la giurisdizione del Pontefice Romano.
Con i normanni, si assiste, inoltre, alla nascita di nuovi luoghi di culto latini. Per non esasperare i rapporti con le popolazioni locali, in prevalenza greche, e legate pertanto al rito ortodosso, i franchi procedettero alla graduale sostituzione dei religiosi ortodossi, con altri prelati cattolici posti alla guida dei vecchi luoghi di culto greci.
In una terra così fortemente radicata alle tradizioni ortodosse, nel 1091, Papa Urbano II (1088-1099), quello della prima crociata, per dare un ulteriore impulso alla liquidazione dell’ortodossia calabrese, chiamò in Calabria Brunone da Colonia, il quale, nei boschi delle Serre Calabre, fondò la Certosa di Santo Stefano del Bosco, che fu subito, nel 1094, dotata da parte del Conte Ruggero il Normanno, di un vasto territorio che dai monti si estendeva sino al mare Ionio, nel quale erano compresi numerosi casali (Bingi, Bivongi, ecc.), conventi, mulini, miniere, ferriere, ecc.
Per il controllo di un così vasto territorio, ma ancor più per diffondere il rito cattolico, in opposizione a quello ortodosso, i Certosini fondarono, qualche volta su preesistenti luoghi di culto, numerosi conventi e/o Grange, come quella dei Santi Apostoli proprio vicino al Katholikon di San Giovanni.
Nel 1096 viene latinizzata per volere di Ruggero, la diocesi greca di Squillace; di conseguenza il vescovato di Stilo, come pure quello di Taverna, venne assorbito dalla nuova istituzione ecclesiastica perdendo di fatto la propria autonomia.
Dopo la morte di Mesimerio, ultimo vescovo greco di Squillace, la situazione era divenuta insostenibile e nei vari luoghi di culto della diocesi regnava una certa confusione; Ruggero preoccupato di tale stato chiamò come vescovo il latino Giovanni, canonico e decano della chiesa di Mileto.
Negli stessi anni, intorno al 1100, per volere del Conte Ruggero il Normanno che aveva ottenuto per intercessione del Santo un miracolo per il proprio figlio, inizia la riedificazione del Katholikon, che ingloba gli edifici dell’antico cenobio,
Il Normanno, quindi, per la grazia ricevuta, si prodigò affinché il monaco. Giovanni avesse una degna sepoltura e che fosse ricordato e venerato in una grandiosa chiesa, “…cum igitur multa necessaria desint templo patris nostri S. Ioannis, Dei auxilio id abundanter providimus”, così recitava l’antico documento, normanno, di “finanziamento” della costruzione del Katholikon.
Nella prima metà del ‘600 venne eretto, a difesa del monastero, per trovare riparo dalle numerose incursioni effettuate da un gruppo di malviventi che infestava la zona, un possente muro di cui ci rimane il grande portale in granito.
Nonostante tale difesa, le vessazioni dei briganti continuarono, il ché costrinse nel 1660 l’archimandrita del tempo a richiede ai propri superiori: l’Abate Generale dell’Ordine Basiliano, Dionigi Mungo ed il procuratore generale Teofilo Pirro; di inoltrare richiesta al Papa al fine di ottenere la dovuta autorizzazione ad abbandonare il monastero.
Il Papa Alessandro VII, in un primo tempo, per evidenti motivi economici, nega tale autorizzazione, ma le continue prepotenze a cui erano sottoposti i monaci, soprattutto dalla banda guidata da un certo Mommo Comito, lo convinse a concederla nello stesso anno con la lettera “Ad futuram Dei memoriam”, che consentiva la traslazione a Stilo anche delle reliquie dei tre Santi Monaci: Giovanni, Ambrogio e Nicola.
Il 2 marzo del 1662, con grandi feste religiose e civili, i monaci si trasferirono a Stilo, in un convento costruito nel 1625 dai Padri Paolotti e dedicato dai Basiliani, che ne entrarono in possesso al Santo Giovanni Theristìs.
Nella chiesa del nuovo convento furono traslate, ed ancora vi si trovano, le reliquie dei Santi, nonché tutti i paramenti e gli arredi sacri.
Per pochi decenni ancora il vecchio monastero fu presidiato da pochi monaci che avevano il compito di salvaguardare e amministrare i propri beni. In seguito, abbandonato definitivamente, fu lasciato alle offese atmosferiche e alla distruzione perpetrata dagli uomini. I suoi ambienti, anche quelli di stretta pertinenza religiosa, furono dai contadini, trasformati in case coloniche, depositi, e stalle. Le tegole, le travi e i pavimenti furono utilizzati per costruire casette di campagna. Alcuni suoi ambienti demoliti del tutto per far posto ad un camino.
La rinascita del Katholikon
I primi ad “accorgersi” della esistenza del Katholikon furono, sul finire del sec.XIX, E. Jordan con il suo “Monuments byzantin de Calabre”, pubblicato nel 1889 e C. Diehl nello stesso anno con una pubblicazione su “L’art byzantin dans l’Italie meridionale”.
Un piccolissimo cenno si ha nel 1894 da parte del Croce, che lo cita in un articolo ”Sommario critico della storia dell’arte nel Napoletano” apparso su “Napoli nobilissima”. Nel 1903, è ricordato dal Bertaux, nella sua opera “L’Art dans l’Italie meridional de la fin de l’Empire Romain à la conquete de Charles d’Anjou”, che la definì come “ una costruzione siciliana in Calabria” . In seguito si hanno solo pochi cenni da parte di altri studiosi minori.
Agli inizi del XX sec., Paolo Orsi, archeologo responsabile dei beni archeologici e monumentali della Calabria e della Sicilia, si “imbatte”, nel suo incessante peregrinare alla ricerca delle chiese basiliane Calabresi, anche nel San Giovanni.
L’Orsi effettua il primo studio scientifico sul monumento che, nel 1929, con la pubblicazione de “ Le chiese basiliane della Calabria”, finalmente entra a pieno titolo nella cultura ufficiale del tempo.
Purtroppo, la mancanza di strade di collegamento e di finanziamenti non consentirono all’Orsi, nel lontano 1912, di poter effettuare alcun tipo di restauro.
Il Katholikon ripiomba, così, ancora una volta nell’oblio. Oblio in cui resta sino all’inizio degli anni settanta quando l’allora Sindaco di Bivongi e cultore di cose Calabresi, Ernesto Franco, non lo “riscopre” e lo fa conoscere anche attraverso l’utilizzo dei mass media.
Lo stesso, intuendo che il monumento non sarebbe mai potuto essere restaurato per le difficoltà di collegamento stradale, riesce nelle ristrettezze economiche del tempo e nell’insensibilità di molti organi preposti a far costruire la strada che ancora oggi esiste.
Nel 1993 alcuni monaci fanno ritorno nella vallata dello Stilaro, in visita ai luoghi dei loro Padri.
Vengono accolti fraternamente, guarda caso, proprio da quella persona che in passato, da sindaco, si era già interessato del San Giovanni e nella sua casa questi pellegrini trovano il loro primo “monastero” ed il calore tipico dei Calabresi che li “convince” a rimanere a Bivongi, per far rivivere il Katholikon
di San Giovanni.
Il Katholikon di S. Giovanni Theristìs
Il Katholikon rappresenta, E. Zinzi, “il primo documento architettonico-urbanistico d’età normanna in Calabria”, ed il più interessante monumento di epoca bizantino-normanna dell’intera Calabria non solo per la storia che tramanda, ma anche per la felice sintesi artistica che rappresenta.
I resti consistenti che ancora oggi si possono ammirare su un pianoro di piccolissime dimensioni di fronte a Stilo, sono quelli della chiesa abbaziale voluta dal re normanno Ruggero II e consacrata il 24 giugno 1122 dal Papa Callisto II. E’ una tipica costruzione a croce latina di cui altri esempi, riferiti alla tipologia di impianto, esistono in Calabria, quali: Santa Maria di Tridetti, Santa Maria della Roccelletta e la Cattedrale di Gerace; in Sicilia: Santa Maria di Mili e San Pietro e Paolo a Itàla; in Europa: le abbazie di Cluny e di Bernay.
Il Katholikon, lungo m. 29,10 e largo m. 11,20, rappresenta una mirabile sintesi artistica delle culture operanti a quel tempo.
In esso si denotano chiari influssi bizantini, nella triplice divisione interna degli spazi del presbiterio (prothesis, vima e diakonikon) e nella policromia del tessuto murario esterno che reca tracce di reminiscenze tardo romane e reimpieghi di epoca incerta. Mostra, invece, influenze normanne nell’impianto basilicale e nel verticalismo delle strutture, soprattutto della cupola, simile nella sua veduta iposcopica, a quelle non molto più tarde della chiesa di San Cataldo a Palermo; presenta, infine, ascendenze arabe negli archi acuti intrecciati in mattoni nei motivi murari esterni dell’abside (che costituiscono il primo esempio di tale stile nell’Italia meridionale peninsulare), nei motivi a dente di sega, nell’arco trionfale ogivale interno e nella trasformazione, del tamburo quadrato in cerchio, del, grazie alle trombe angolari, in ottagono sul quale si erge la cupola, che risulta «impostata su quattro poderosi pilastri, sorreggenti altrettanti archi, di cui due a tutto sesto, e gli altri due acuti» e che costituisce «la parte più degna di ammirazione» dell’intera chiesa.
«Questa cupola, vista dall’esterno, consta di un tamburo quadrato sorreggente uno circolare, cinto da sedici colonnine in cotto, sul quale si adagia la bassa calotta terminale. Alquanto diverso è, invece, l’aspetto interno: i muri perimetrali inferiori scaricano il peso della massa sovrastante sugli archi ogivali ed a tutto sesto, di eccellenti mattoni, e sui pilieri angolari. Il tamburo inferiore, quadro con doppio ordine di denti di sega assai pronunciati, trapassa in uno ottagono sovrastante, con quattro finestre a tutto tondo nella direzione dei punti cardinali, alternate con altrettante nicchie o cuffie, quasi campate in aria. Di qui in su si lancia il terzo corpo cilindrico colla cupola depressa ancora intatta».
In merito alla elaborazione degli spazi interni: ”Se parte evidente degli elementi tecnico-morfologici interni riporta a lessico islamico (archi acuti, denti di sega, muqarnas) come per gli archi intrecciati dell’esterno, e la struttura torreggiante di radice nordico-benedettina, prende corpo con un valore spaziale partecipe della religiosità d’Oriente, c’è ancora da considerare a testimonianza della qualità composita di questo linguaggio calabro-siculo, che il gusto d’una rigorosa stereometria e la capacità di realizzarla non possono essere estranee all’esperienza delle maestranze arabe operanti tra le due rive dello Stretto. E ad esse, portatrici d’un consumato mestiere già ricco di tante applicazioni nella Sicilia degli emiri (Ibn Hawkal scrive nel secolo X di trecento moschee costruite in Palermo), bisogna guardare anche per quanto concerne la soluzione di problemi statico-strutturali. E penso anche alla cura con cui vengono calcolati pesi e resistenze nella parte strutturale-decorativa del presbiterio esterno, al dosato alternarsi di gruppi di mattoni, di piatto e di taglio, nei punti di scarico di arcate ed arcatelle. Credo che la componente islamica, d’altronde documentata in tanta parte del medioevo figurativo di Calabria, vada considerata in questa fusione di linguaggio microasiatico e nordico-benedettino, che sta alla base del San Giovanni Theriste, unificato da esigenze di liturgia e di sacralità”.
All’impianto precedente la fase normanna si possono attribuire soltanto parte del naos ed il nartece (o atrio funebre?). Quasi certamente la chiesa primitiva, voluta verso la metà del sec. X da Gherasimos Atulinos, ed eretta poco distante dalla “laura” dove era vissuto S. Giovanni, doveva essere mononavata e ad essa, nel sec. XII, fu aggiunta la parte del presbiterio, che infatti, ad un’attenta analisi, risulta staccata dalla muratura della navata stessa.
La diversa composizione muraria del Katholikon indica varie fasi costruttive. Così, la parte presbiterale che è la più recente nel tempo, risulta costruita quasi totalmente in laterizi di consistenza ferrosa, mentre il naos, sul quale sono impostate quattro finestre e che fa da raccordo tra presbiterio e nartece è realizzato con materiale lapideo e mattoni, non scevro da inserti di reimpiego, quali blocchi squadrati in arenaria o calcare e bassorilievi a motivi floreali.
L’illustre archeologo Paolo Orsi, così descriveva la tessitura muraria dell’abside: “La monotonia delle superfici murarie è poi interrotta continuamente nell’abside, nel transetto e nella cupola da lesene aggettanti, le quali sorreggono archi incrociati; ed il fastigio della fabbrica è quasi inghirlandato dalla gentile corona di colonnine, che cingono la cupola. Ora tutta questa massa rossigna sullo sfondo nereggiante dei boschi, e su quello terso dell’azzurro cielo, produceva un gioco di colori che non era casuale ma di proposito ricercato e voluto dai costruttori; alquanto diverso nei particolari, ma identico nel fine era il gioco della policromia della Cattolica di Stilo, un po’ più antica di S. Giovanni, e dove quanto a colore il rosso del mattone si alterna colle linee bianche delle malte interstiziali, e quanto a forme le mattonelle quadrate delle cupolette si sovrappongono alle filate sottili dei mattoni dei muri perimetrali, ottenendo così vaghi effetti geometrici. Non ho poi bisogno di insistere, perché ormai troppo nota, sulla policromia muraria delle costruzioni normanne della Sicilia occidentale, ottenuta alternando lava e calcare”.
Il nartece, infine, che rappresenta insieme agli elementi di reimpiego tutto ciò che rimane del cenobio di Gherasimos, è costruito quasi esclusivamente in pietra.
Sulla sua facciata si possono ancora notare l’antico portale d’ingresso, una finestra e sulla parte alta, delle decorazioni a dente di sega, poi riproposte più volte nella muratura presbiterale.
Le ricerche archeologiche hanno consentito di ritrovare in questa zona un pavimento in cotto in buono stato di conservazione, databile intorno al sec. XIII, squarciato da un monumentale ossario che fu realizzato in epoca successiva quando il nartece fu trasformato in vano funebre.
Nello stesso ambiente si notano anche tracce di affreschi e lungo il perimetro interno vi sono i resti di un bancale in pietra ad uso dei monaci.
Gli scavi della Sovrintendenza Archeologica hanno portato alla luce delle antiche fosse di sepoltura, non riconducibili all’attuale edificio di culto che aveva il proprio cimitero in una località poco distante denominata Macari.
Inoltre sono stati ritrovati anche ambienti di lavoro, fornaci per la cottura di mattoni e tegole e cosa molto interessante, la tomba affrescata, nella quale erano deposti fino al 1662, quando vennero traslati nella chiesa di S. Giovanni Nuovo di Stilo, i resti mortali dei tre Santi monaci che vissero ed operarono in questo luogo: Giovanni, Ambrogio e Nicola.
Le numerose tracce di affreschi visibili sul muro esterno del naos, che non superano di molto la parte sovrastante la porta d’accesso e l’accenno ad un arco tronco sulla muratura esterna, lasciano supporre la presenza di un porticato ad archi, ora scomparso, sotto il quale si trovavano varie sepolture, emerse durante le ultime indagini archeologiche. All’interno, un importante affresco del sec. XII, collocato un tempo nel diakonikon e raffigurante l’Odighitria, risulta oggi trafugato.
Un secondo dipinto, risalente al periodo Comneno e rappresentante la Blachernitissa, è stato staccato ed è attualmente conservato a Cosenza presso la Sovrintendenza per i Beni A.A.A.S. della Calabria. Inoltre è ben visibile nel catino absidale del vima il seicentesco San Giovanni Therestis, attribuibile a Domenico La Rosa, pittore di Squillace, attivo a Bivongi, Guardavalle e Taverna nella seconda metà del sec. XVII. Infine nella prothesis, là dove si trovava la tomba dei Santi Giovanni, Ambrogio e Nicola, vi è un interessante ciclo di affreschi del sec. XIV rappresentante S. Giovanni e scene della sua vita da poco sottoposti a restauro. Ci si trova “dinanzi a una manifestazione artistica di notevole rilievo documentario, poiché la composizione a icona agiografica è rara fra le testimonianze della pittura meridionale, specie della Calabria medioevale” e tutto ciò consente di acquisire “elementi interessanti sia per l’iconografia locale dei santi italogreci, sia per argomenti miranti alla migliore definizione della cronologia del Bìos dello stesso San Giovanni.
La grotta del Santo Mietitore
Il Katholicon ha attirato tutte le attenzioni dei restauratori attuali, delle amministrazioni, nonché dei monaci che lo hanno e che oggi lo utilizzano. Forse non tutti sanno, ma poco distante dalla fabbrica monastica, percorrendo una lunga scalinata, si giunge nel posto che io ritengo il più santo tra i luoghi sacri legati al katholicon.
Si tratta della ”grotta del Santo” uno dei luoghi dove il Santo Giovanni fece uno dei suoi miracoli, quello legato all’acqua medicamentosa.
La grotta, ora utilizzata per le preghiere dei monaci, riversa in condizioni pietose. Molto si è speso molto per realizzare la scalinata, nulla per restaurare la grotta.
A giustificazione del non restauro della grotta, si può addurre la non conoscenza del sito da parte della sovrintendenza, la stessa giustificazione non la si può fornire a coloro che si fregiano di essere conoscitori e promotori dell’area bizantina dello Stilaro.
In essa sono ancora visibili tracce di pitture murarie che anticamente davano decoro alla grotta e raccontavano i miracoli del santo.
Si notano a stento figure in processione, il santo che effettua un miracolo, una immagine di una chiesa, e molti motivi floreali probabilmente coeve all’affresco dell’abside della chiesa.
Bisognerebbe intervenire presto perché si rischia di perdere un importante testimonianza pittorica e quanto essa potrà raccontarci dopo un adeguato restauro.
La vallata bizantina dello Stilaro, non può perdere il suo luogo più sacro che ci ricorda la vita di San Giovanni il Mietitore.
Danilo FRANCO
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