Mer. Ago 14th, 2024

di Vincenzo Speziali

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Giacomo Mancini, è stato un vero leone. Anzi era il leone, poco importa se socialista o meno, poiché questo fu, veramente, il suo carattere. Ha speso la vita onorando le idee in cui credeva e le istituzioni tutte.

Anzi, per essere chiari, queste ultime le ha rappresentate come è d’uopo fare, cioè in ottemperanza al dettame costituzionale dell’art. 54:”…I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore…”.

Ciò significa essere politici, “Uomini di Stato”, nonché appassionati di umanità.

Già, l’umanità, di cui era esperto il fondatore e vero leader della Democrazia Cristiana – nonché caro amico di mio nonno e fratello di un collega di Partito e in Parlamento, sempre di mio nonno – cioè Giovan Battista Montini, ovvero San Paolo VI°.

Sul versante laico, invece, vi era certamente lui, Giacomo sr., pure se in molti tratti, proprio per la sua autentica passione politica, li ritrovo nel nipote omonimo, Giacomo jr.

Lo premetto, al Giacomo “contemporaneo” sono legato da amicizia sincera, ovvero personale (sin da quando eravamo ragazzi), in quanto è una persona perbene, che vive la sua vita all’insegna della discrezione, ma anche della coerenza identitaria, ideologica e partitica, con disinteresse prosaico e gusto di partecipazione alla vita pubblica. Questa è la sua formazione, la sua impostazione caratteriale: insomma, lui è così!

La vita, non ha fatto “sconti” al “mio” di Giacomo, ma se per questo, nemmeno al Giacomo di mio nonno.

Loro erano colleghi in Parlamento e nelle istituzioni, pur se non so fino a che punto avessero consuetudinità da amici veri. Intendiamoci si conoscevano e si stimavano, anche perché mio nonno – seppur democristiano e tra i fondatori nazionali del PPI prima e della DC dopo – era sempre il genero del mio bisnonno, cioè Tiberio Evoli, il quale a sua volta fu il Presidente del Gruppo Parlamentare del Partito Socialista Riformista alla Camera del Regno, dove erano iscritti, non solo e tra gli altri Ivanoe Bonomi e Francesco Saverio Nitti (i due Presidenti del Consiglio, nel tempo coevo), ma anche Leonida Bissolati.

Per me e il Giacomo contemporaneo (detesto il nomignolo Giacomino, in quanto è come se lo si volesse “ridurre”, invece è una persona a modo, profonda, egregiamente politica e, soprattutto, un autentico galantuomo), dicevo, per noi è diverso, poiché siamo veramente amici…e me ne vanto!

D: Allora Giacomo, qual’è il primo ricordo che ti viene in mente, pensando a tuo nonno?

R: Per prima cosa grazie per le parole colme di affetto, stima e considerazione che mi lusingano e che ricambio. Mio nonno, si può dire sia stato presente fin da subito nella mia vita. Dal primo giorno. Non gli piaceva l’idea dei miei genitori, soprattutto di mia mamma, che preferivano i nomi composti. Cos’è “sto Giangiacomo” diceva. E non si limitò a dirlo, ma andò all’ufficio anagrafe a registrare il mio nome. Poi è stato sempre presente nella mia vita. Aggiungi che ero l’unico nipote maschio. D’estate, villeggiavo per diversi mesi a Sangineto, capitava spesso che prima dei suoi tour in giro per la Calabria per iniziative, dibattiti, convegni, passasse a salutarmi. Mi ricordo questa figura alta, elegante, imponente, con le bretelle che si avvicinava in spiaggia per abbracciarmi. Quando feci l’esame di maturità lo trovai ad aspettarmi all’uscita del liceo. Mi disse: “Non sono entrato per evitare di mettere a disagio i professori”. Dentro di me pensai: “meno male” anche perché la mia prestazione non fu delle più brillanti.

Solo in occasione della mia laurea non fu presente. Era a Palmi a lottare contro quell’infame persecuzione giudiziaria di cui fu vittima e che minò pesantemente la sua salute.

D: Che ti raccontava della sua vita politica? Parlo degli inizi e poi del prosieguo.

R: Fu attivo fino all’ultimo giorno. Morì da sindaco di Cosenza. E per questo forse che non lo ho mai sentito indulgere sul passato con malinconia. Ero più io che chiedevo informazioni, sollecitavo ricordi, domandavo. Ad iniziare dal suo ruolo nella Resistenza. Pagine importanti che segnarono la sua via e il suo impegno, delle quali però non ha mai voluto esibire meriti particolari e pretendere onorificenze. Sebbene nella Roma occupata fosse il vice di Giuliano Vassalli a capo dei partigiani e dopo il suo arresto ne prese il comando.

D: Quali erano i colleghi, non solo di Partito bensì pure degli altri, dei quali aveva stima?

R: Considera che suo padre Pietro fu il fondatore del socialismo meridionale, primo deputato socialista della Calabria, membro dell’Assemblea Costituente. Una vera e propria personalità. Di conseguenza i rapporti erano mutuati da quelli del padre. Nel partito aveva un rapporto privilegiato con Pietro Nenni. Fu Nenni che lo chiamò a capo dell’organizzazione negli anni difficili del rapporto conflittuale con il Pci dopo l’invasione dell’URSS dell’Ungheria. Anche con Rodolfo Morandi, segretario socialista, ministro dell’industria poi prematuramente scomparso aveva un rapporto profondo. Ma oltre ai leader conosceva il partito in profondità. Non solo in Calabria. Tante volte mi è capitato passeggiando con lui di assistere alla scena di compagni di ogni angolo di Italia avvicinarsi, presentarsi fare cenno a fatti e persone che lui conosceva e completava nel ricordo.

D: Certamente avrà avuto più di un’occasione di ritornare – quando parlavate e lui ti “allevava”- al suo periodo di Segretario Nazionale del PSI e prima ancora di Ministro, sia della Sanità, battendosi e vincendo la battaglia per alcuni delicati obblighi vaccinali – come l’antipolio – oppure dei Lavori Pubblici.

R: In quel periodo il Paese era guidato da governi di centrosinistra che realizzarono le più importanti riforme. Fondamentali anche oggi per la vita dei cittadini. Quella stagione meriterebbe di essere ricordata. Soprattutto ai più giovani.

D: I rapporti con Bettino Craxi, quali sono stati veramente?

R: Bettino, quando era giovane segretario cittadino del Psi di Milano frequentava casa di mio nonno a Roma. C’era un rapporto affettuoso. E come è noto Giacomo si spese molto, dopo la segreteria di De Martino, per portare alla guida del partito una giovane generazione di dirigenti tra i quali Craxi era il più brillante. Ottenuta la segreteria, però, ci fu la rottura. Mio nonno si lamentava del fatto che Bettino non rispondeva nemmeno alle sue lettere. Poi ad allontanarli furono anche scelte politiche. Ingiuste, ma anche perdenti, furono i tentativi di Craxi di emarginarlo. Un peccato perché sono state Giacomo e Bettino due grandi personalità. Una loro collaborazione avrebbe certamente portato vittorie ed evitato errori. Certo è che quando Giacomo seppe della morte di Bettino ebbe un moto di commozione che lo portò alle lacrime. Come quasi mai mi capitò di vedere.

D: Con quale collega democristiano si trovava a più a suo agio?

R: Non saprei indicartene uno in particolare. Tra DC e PSI c’era una collaborazione di governo, ma anche una competizione per occupare maggiori spazi elettorali. E quindi non mancarono scontri alternati a collaborazioni. O collaborazioni alternate a scontri. Certamente aveva un buon rapporto con Aldo Moro, che presiedeva il primo governo di cui fu chiamato a fare parte da ministro della Sanità. Nella sua attività di Ministro dei lavori pubblici mi raccontava di avere un buon rapporto con Emilio Colombo che era ministro del Tesoro. E proprio da quel dicastero il leader lucano non sollevava mai problemi sull’allocazione delle risorse per finanziare le opere proposte dal suo collega calabrese. Un aneddoto di cui fui testimone è quello con Cossiga. Cossiga con quella sua inflessione sarda diceva “In Sardegna abbiamo avuto presidenti della repubblica, presidenti del consiglio, ministri, ma per fare l’unica infrastruttura della nostra isola abbiamo dovuto aspettare un calabrese”. E si riferiva all’intervento di Giacomo Mancini per realizzare la superstrada Carlo Felice. Anche Giulio Andreotti, che ho incontrato più volte durante le sedute comuni di Camera e Senato aveva sempre parole affettuose. Ricordo il suo sorriso impercettibile quando per la prima volta mi avvicinai in aula per salutarlo e gli dissi il mio nome.

D: Che idea aveva di Berlinguer e di Almirante?

R: Beh con Enrico Berlinguer c’era un rapporto più profondo. PSI e PCI ebbero scontri notevoli, ma in alcuni periodi misero in campo una collaborazione più stretta che poi li portò insieme al governo di importanti città del Paese. Un aneddoto. Berlinguer frequentava casa di mio nonno dove lavorava una signora che teneva in ordine l’appartamento che era anche lei sarda. E i due parlavano in dialetto sardo strettissimo. Con Almirante invece c’è sempre stata una grande distanza politica, siderale. Ma non ho memoria di contrasti che trascendevano sul personale. Anzi le rispettive mogli, donna Vittoria e donna Assunta, avevano un rapporto di cordialità, forse anche di amicizia, e capitava che andassero a colazione insieme.

D: Giacomo, perdonami, però questa domanda non posso evitarla: sai che la vicenda Moro, mi tocca persino da un punto di vista personalmente affettivo! Quali furono le iniziative di tuo nonno, in quella tragica vicenda, pure finalizzate a salvare la vita del Presidente martire? Vi sono state questioni che hanno toccato persino il marito di tua zia: e` un atto pubblico, noto, quindi lo posso riportare, senza risultare insensibile o irriguardoso, nei tuoi confronti.

R: Durante i tragici giorni del rapimento del presidente Aldo Moro, il PSI era schierato con convinzione sulla via del dialogo, della trattativa con le Brigate Rosse con l’intento di salvare la vita allo statista democristiano. Nel Psi per autorevolezza, ma anche perché aveva una sensibilità maggiore rispetto alle ragioni della cd sinistra extra parlamentare (e non certamente per rapporti personali di suoi congiunti con esponenti di quel mondo) c’era certamente Giacomo Mancini. Come è noto a prevalere fu la cosiddetta linea della fermezza voluta da DC e PCI che impedì ogni tipo di dialogo che avrebbe portato probabilmente alla liberazione dell’ostaggio. Tante volte gli ho sentito ripetere che fu un grave errore, di cui non si capacitava delle motivazioni, di salvare la vita al leader democrisitano.

D: Giacomo caro, ti chiedo scusa se ti faccio una domanda circa un periodo doloroso e mortificante anche per te – figuriamoci per tuo nonno! – ovvero il periodo di quella boiata pazzesca – la definisco io così, prendendone la responsabilità – ovvero la colonna infame della vicenda processuale, che lo vide “incredibile” imputato, in un altrettanto incredibile processo. L’accusa era solita, cioè “Mafia e dintorni”: era uno dei cavalli di battaglia dei “masnadieri” che abbatterono con una sorte di golpe neogiacobino la gloriosa Prima Repubblica (e con essa l’intera classe politica). Che vuoi raccontare di tutta questa storia, la quale si risolse con la sua ovvia e scontata assoluzione, pur a netto di aver insozzato l’ennesimo Statista italiano, con assurdità simili?

R: L’ho già accennato e lo voglio ribadire con forza: quella persecuzione lo minò nell’animo e nel fisico e lo condusse alla morte. Certo la affrontò con il solito coraggio da leone combattendo colpo su colpo. Ma questo è. Quella vicenda giudiziaria è stata una vera e propria infamia. Una tra le pagine peggiori della storia del nostro Paese.

D: In quel periodo, Giulio Andreotti, Lillo Mannino ed Antonio Gava, combattevano su un fronte simile, una battaglia simile: i primi due a Palermo, il terzo a Napoli. Anche tutti loro assolti, come ad ennesima riprova di quanto dico circa le distorsioni antidemocratiche – da golpe sudamericano – che passammo noi da cui proveniamo con orgoglio, ovvero democristiani e socialisti?

Vuoi dirci se con loro o con qualcuno di loro, si sentiva e commentava? In fondo, almeno con Giulio (Andreotti, ndr) furono colleghi per tanti anni ed anche ministri assieme nella prima ‘trilogia’ dei Governi Moro, tra il 1963 e il 1968.

R: Concordo su molte delle tue parole. Del resto alcuni PM hanno dichiarato che le diverse azione giudiziarie si rafforzavano le une con le altre. Sebbene abbiano vissuto in molti questa triste e infame esperienza, non mi risulta che in quegli anni difficili e tragici ci furono contatti tra loro.

D: Cosa ti disse, quando sei diventato Deputato la prima volta? Certamente sarai stato, da solo e a quattr’occhi con lui, nel momento dell’ufficialità di avvenuta elezione.

R: Era il 2001. Lo spoglio procedeva a rilento. Ci volle l’alba del martedì per sapere i risultati. Entrai nella sua stanza e gli comunicai di essere stato eletto. Mi abbraccio e mi disse “Adesso posso pure morire felice”. Non fu presente alla mia prima seduta alla Camera dei Deputati. Si muoveva con difficoltà a causa della malattia. Ma sapermi in Parlamento dove aveva combattuto battaglie di progresso e di libertà, lo faceva essere orgoglioso. Mi chiedeva felice di ascoltare la mia risposta positiva: “E dimmi, ti hanno chiamato onorevole?”.

D: Un’ultima domanda, caro Giacomo, certamente pensi ogni giorno a tuo nonno, però se fosse qui, con te adesso, che gli diresti?

R: Per me è stato più di un genitore. Avevo un rapporto profondissimo con lui. Nonostante fossi timido e chiuso e nonostante lui fosse dipinto come duro e arcigno (ma invece era di una dolcezza disarmante) con lui parlavo di tutto. Sono felice di non avere lasciato nessun discorso in sospeso con lui. L’ultima volta che parlammo eravamo nella biblioteca dove la mattina leggeva i giornali (nell’ultimo periodo quando aveva difficoltà li leggevo io ad alta voce) e insieme li commentavamo. In quella stanza, intorno a quel grande tavolo, fino all’ultimo, riceveva i suoi collaboratori del comune con i quali si è speso per migliorare Cosenza, per farla diventare una città europea, come gli piaceva ripetere, e per essere più vicino a chi viveva nel bisogno. 

Quell’ultima volta il sole entrava dalle tende e illuminava i libri, in fondo la foto con il padre in compagnia di Pietro Nenni. Gli dissi: “ti sono grato per tutto quello che hai fatto per me e per come mi sei sempre stato vicino”. Ricordo perfettamente il suo sguardo dolce e le sue parole: “se solo sapessi quanto mi fa felice averti vicino”.

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