Chiesta la conferma del carcere a vita per Rocco Schirripa. «Mi fa rabbia che queste persone si vendichino su di me per avere i loro benefici»
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«Non ci sto più a stare in carcere da innocente» e «mi fa veramente rabbia che queste persone si vendichino su di me per avere i loro benefici». Lo ha detto oggi Rocco Schirripa, parlando dei pentiti di ‘ndrangheta che hanno fatto il suo nome nel dibattimento di primo grado in cui è stato condannato all’ergastolo, rendendo dichiarazioni spontanee nel processo davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Milano in cui è imputato per l’omicidio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, ucciso nel giugno 1983.
Stamane il sostituto pg Galileo Proietto ha chiesto la conferma della condanna al carcere a vita inflitta nel luglio 2017. Schirripa è stato arrestato nel dicembre 2015, a oltre 30 anni dal delitto. Tra le prove dell’inchiesta del pm di Milano Marcello Tatangelo (ora sostituto pg a Torino) alcuni dialoghi intercettati tra Domenico Belfiore (a capo dell’omonimo clan e condannato all’ergastolo in via definitiva come mandante del delitto) e altri ‘ndranghetisti, tra cui Placido Barresi, boss ed ergastolano, ora in semi-libertà.
«Rocco Schirripa non c’entra niente e non lo dico io, ma i fatti», ha aggiunto l’imputato. «Hanno studiato a tavolino per trovare un capro espiatorio e hanno scelto me perché ero una preda facile: sono compare di Domenico Belfiore, sono pregiudicato e sono calabrese». E ancora: «Non mi sono mai macchiato di fatti di sangue, lo grido con tutte le mie forze: sono innocente».
Secondo le indagini della Dda milanese, l’omicidio Caccia fu una dimostrazione di fedeltà data da Schirripa ai boss i quali sarebbero stati “irritati” dall’estremo rigore del magistrato torinese. Ipotesi condivisa dal sostituto pg Galileo Proietto che nella sua requisitoria, ha illustrato i diversi passaggi dell’indagine, a partire dalla lettera anonima che era stata inviata a Domenico Belfiore, già condannato all’ergastolo per il delitto, alla fine di agosto del 2015. Lettera che spinse Belfiore, Barresi e l’imputato, come risulta dalle intercettazioni, a parlare del delitto Caccia. Dialoghi, questi, considerati una prova decisiva. Proietto ha poi citato la testimonianza di Domenico Agresta, 30enne pentito di ‘ndrangheta che rivelò prima agli inquirenti e poi al processo a Milano, di avere saputo dal padre e boss di ndrangheta Saverio Agresta, che Rocco Schirripa e l’ex militante di prima linea Francesco D’Onofrio facevano parte del gruppo di fuoco che uccise il magistrato torinese.
Secondo il pg, il figlio del boss è attendibile anche perché «è nato ‘ndranghetista, ha respirato ‘ndrangheta sin da quando è nato e suo padre è un nome di spicco della ‘ndrangheta piemontese». «Quella di primo grado – ha sostenuto Proietto, che nel novembre scorso ha avocato la nuova indagine sull’omicidio Caccia a carico di D’Onofrio – è una sentenza giusta, che ha preso in considerazione le esigenze di tutte le parti. Dopo 30 anni è stato fatto un primo passo verso la giustizia, speriamo che non ne passino altri 30 perché sia fatta completamente». E ancora: “Bruno Caccia non è stato dimenticato, la sentenza è stata un passo importante». Si ritorna in aula il prossimo 13 febbraio.