È notizia di qualche ora fa la conclusione delle attività della task force per la lotta al caporalato a allo sfruttamento del lavoro iniziata a gennaio nel territorio della piana di Gioia Tauro. I dati, come ben facilmente prevedibili, sono drammatici: su 59 aziende controllate 32 sono risultate irregolari e 11 attività sono state sospese, mentre su 246 posizioni lavorative verificate 80 sono risultate irregolari, di cui 33 in nero. Sono numeri drammatici che da soli basterebbero a rappresentare quel sistema infernale di sfruttamento che coinvolge soprattutto i tanti lavoratori stranieri che si riversano nelle nostre campagne durante la stagione agrumicola.
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Ma mentre plaudiamo ad ogni attività di contrasto allo sfruttamento, allo stesso tempo sappiamo bene che queste operazioni rappresentano una goccia nel mare e che, da sole, poco o nulla riusciranno a scalfire un sistema consolidato. Sono necessari interventi strutturali.
La nostra organizzazione sindacale da tempo ha individuato dei punti chiave, a partire dall’emersione dei tanti stranieri irregolari. L’assenza di documenti, per forza di cose, impedisce di poter sottoscrivere un qualsivoglia contratto, lasciando come unica alternativa alla criminalità il lavoro nero: il solo modo per impedire ciò è proprio la regolarizzazione di queste persone.
Di non secondaria importanza è il riconoscimento del diritto alla residenza e la garanzia del diritto ad un’abitazione, senza i quali sarebbe impossibile dare la giusta dignità ai lavoratori agricoli.
Potenziare quindi sia i centri per l’impiego, al fine di favorire il reclutamento pubblico ed evitare così le figure di intermediazione, che gli ispettorati del lavoro, in modo da intensificare i controlli nei campi e nelle aziende.
La registrazione puntuale e quotidiana delle giornate costituirebbe inoltre un ulteriore strumento di contrasto al lavoro grigio: è paradossale infatti che, nell’epoca della digitalizzazione e della diffusione capillare di smartphone e app, ancora le giornate vengano registrate dopo mesi, impedendo un reale controllo della regolarità del lavoro nei campi e rendendo difficili eventuali denunce e ricorsi da parte dei lavoratori.
Sono considerazioni queste abbastanza semplici, cui si sarebbe potuto investire da tempo. Eppure negli anni abbiamo assistito ad ingenti investimenti pubblici, destinati al miglioramento delle condizioni di vita dei braccianti, che poco o nulla hanno prodotto: milioni e milioni di euro spesi in progetti calati dall’alto e senza il minimo coinvolgimento dei beneficiari e di chi, negli anni, è intervenuto al loro fianco per mitigare le indegne condizioni di vita.
In conclusione ribadiamo che per USB la principale forma di contrasto al caporalato è rappresentata proprio dalla garanzia di diritti, oggi troppo spesso negati, soprattutto per chi è costretto a sottostare ai diktat dei datori di lavoro per non perdere il proprio permesso di soggiorno, così come la stessa legge permette e favorisce. Senza diritti i casi di sfruttamento non potranno diminuire, e il potere di vita e di morte sui migranti sarà sempre nelle mani di organizzazioni criminali pronte a fare affari con pezzi dell’agroindustria.