Mar. Lug 16th, 2024

Due anni all’ex bomber della nazionale Iaquinta: «Mi hanno rovinato la vita». Il verdetto è di 125 condanne, 19 assoluzioni e 4 prescrizioni. La sentenza conferma l’esistenza di una ‘ndrina attiva da anni in Emilia e collegata alla cosca Grande Aracri di Cutro. Circa 40 testimonianze considerate reticenti. Il procuratore: «Contesto di omertà»

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Oltre 1.200 anni di carcere: li ha inflitti il collegio di Aemilia al termine del maxi-processo di ‘ndrangheta. A quanto risulta dal dispositivo letto in tribunale a Reggio Emilia: si tratta di 118 condanne in rito ordinario (la più alta a 21 anni e otto mesi) e di altre 24 in abbreviato per 325 anni, per reati commessi dal carcere durante il processo. Le sentenze hanno sostanzialmente ricalcato le richieste dei pm della Dda Beatrice Ronchi e Marco Mescolini. Nel rito ordinario sono state 24 le assoluzioni del collegio presieduto da Francesco Maria Caruso e composto dai giudici Cristina Beretti e Andrea Rat, per cinque imputati non si procederà perché i reati sono prescritti, mentre un imputato è deceduto prima della sentenza. La pena più alta è stata inflitta a Carmine Belfiore, 21 anni e otto mesi. Condannati, tra l’altro, Gaetano Blasco (21 anni), Michele Bolognino (20 anni e 7 mesi) e Giuseppe Iaquinta (19 anni), imprenditore e padre dell’ex bomber. Nell’abbreviato, con sconto di un terzo della pena, 16 anni e 4 mesi per Gianluigi Sarcone e a 16 anni per Palmo e Giuseppe Vertinelli.

 

LA SENTENZA: 125 CONDANNE La sentenza per 148 imputati è arrivata dopo due settimane di camera di consiglio “blindata” da parte del collegio giudicante composto da Cristina Beretti, Francesco Maria Caruso (presidente) e Andrea Rat. Il verdetto è di 125 condanne, 19 assoluzioni e quattro prescrizioni. Al netto di alcune riduzioni di pena anche consistenti, (compensate però da condanne più pesanti rispetto a quanto chiesto dall’accusa per altre posizioni) è quindi pienamente conclamata l’esistenza di una ‘ndrina attiva da anni in Emilia e nel mantovano con epicentro a Reggio Emilia, diretta emanazione della cosca Grande Aracri di Cutro, ma autonoma e indipendente da essa.

DUE ANNI A IAQUINTA Vincenzo Iaquinta, tra gli imputati di Aemilia, il più grande processo mai celebrato nel Nord Italia contro la ‘ndrangheta, è stato condannato a due anni di reclusione. L’ex bomber della Nazionale e della Juventus, campione del mondo nel 2006, è imputato per reati relativi alle armi. L’accusa aveva chiesto sei anni. Nella sentenza di primo grado è caduta l’aggravante mafiosa. Giuseppe Iaquinta, padre dell’ex calciatore, accusato di associazione mafiosa è stato invece condannato a 19 anni di reclusione. «Ridicoli, vergogna» hanno gridato padre e figlio uscendo poi dall’aula del Tribunale di Reggio Emilia (foto da Repubblica).

«MI HANNO ROVINATO LA VITA» «La ‘ndrangheta – ha commentato Iaquinta – non sappiamo neanche cosa sia nella nostra famiglia. Non è possibile. Andremo avanti. Mi hanno rovinato la vita sul niente perché sono calabrese, perché sono di Cutro. Io ho vinto un Mondiale e sono orgoglioso di essere calabrese. Noi non abbiamo fatto niente perché con la ‘ndrangheta non c’entriamo niente. Sto soffrendo come un cane per la mia famiglia e i miei bambini senza aver fatto niente».

LE TESTIMONIANZE RETICENTI La sentenza di primo grado è stata appena pronunciata e già c’è un “seguito” per il processo. La Corte presieduta da Francesco Maria Caruso, con un’ordinanza, ha infatti chiesto la copia dei verbali delle testimonianze rese in aula da oltre 40 testimoni. Il motivo? Si sarebbero ravvisate nelle dichiarazioni fatte «reticenza e falsità». Tra gli atti richiesti anche quello relativo alla deposizione di Antonio Rizzo, imprenditore di origine cutrese, già a capo dell’Aier, l’associazione di imprenditori in prevalenza calabrese che propose all’allora sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio di acquistare gli immobili invenduti delle loro aziende per destinarle a case popolari. Per il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato, quello delle dichiarazioni non genuine però «non è un quadro che desta particolare sorpresa perché ragioniamo di un contesto in cui la contestazione principale è rappresentata dal 416 bis, cioè da un reato che si caratterizza per l’intimidazione, per l’assoggettamento e per la omertà che ne deriva», spiega. Dunque «è il contesto del reato ma è anche il contesto che, quando ragioniamo in termini processuali, induce a dubitare della genuinità di certe dichiarazioni. Di soggetti cioè che si trovano in quella condizione psicologica che qualifica il reato associativo», conclude Amato.

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